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Τρίτη 22 Απριλίου 2025
La storia della Calabria appare ancora, per molti aspetti, una «storia negata».
La storia della Calabria appare ancora, per molti aspetti, una «storia negata». Questo non vuol dire, certo, che essa non sia indagata dai ricercatori e dagli studiosi di tutto il mondo, ma i frutti di tanti studi rimangono spesso sepolti nelle biblioteche accademiche e fanno parte del bagaglio culturale di pochi. Il popolo calabrese, invece, ed i media in genere, spesso si avvicinano a questa Regione privi delle categorie culturali che, sole, potrebbero riuscire a dischiuderne gli scrigni dei tesori che essa, da millenni, custodisce gelosamente.
Chi pensa oggi alla Calabria, di solito, associa ad essa il ricordo della Magna Grecia, tante volte ribattuto dai tamburi della pubblicità turistica e di cui, nei testi scolastici - di solito così avari di notizie storiche sulle terre del Meridione - si ritrova addirittura qualche sporadica traccia.
Certamente l’eredità magnogreca è viva: è in mille cose, dalla tarantella aspromontana, così simile alla danza detta “pirrica”, alla scintilla di umanità greca ancora presente nell’animo del popolo.
Le origini del mito dell’identità magnogreca sono legate agli eruditi calabresi del Cinquecento e del Seicento, che spesso non esitarono a cambiare nome ai toponimi, facendo un danno enorme per i successivi studiosi, pur di vedere confermate le loro ricostruzioni storiche. Nell’Ottocento, come è accaduto in Grecia nello stesso periodo, le motivazioni della scelta di identificazione con la grecità pagana sono insite nella cultura romantica e neoclassica, che aveva, da Winckelmann in poi, idolatrato una sua idea - peraltro completamente errata - dell’antichità classica e nel rifiuto illuminista nei confronti del periodo romaico, detto spregiativamente “bizantino”, considerato come decadente e deteriore.
Come in Grecia durante e dopo gli anni della guerra di liberazione dal giogo turco, anche in Calabria la ricerca di un’identità culturale ha portato alla creazione di un gigantesco falso storico. In Grecia, a differenza che in Calabria, l’artificiosità della costruzione romantica fu in parte corretta dalla presenza della Chiesa Ortodossa, da sempre custode non accademico dell’identità culturale del popolo greco, che ha, per così dire, “rimesso in circolo” l’eredità romaica bizantina medievale. In Calabria, invece, la Chiesa Cattolica ha operato all’inverso - prima con la Santa Inquisizione e poi con i dettami del Concilio di Trento - sposando acriticamente il vuoto recupero dell’antichità magnogreca e contribuendo spesso alla cancellazione della gran parte delle fonti e dei repertori del periodo altomedievale.
In questo clima intellettuale, dal concilio tridentino in poi, i beni culturali di epoca romaica bizantina della Calabria sono stati fatti letteralmente a pezzi. Dove sono le migliaia di icone calabresi, lodate e celebrate in tutto il Mediterraneo? Dove i monasteri, le chiese e le residenze del notabilato? Dove gli archivi, con i codici calabresi che hanno, di fatto, salvato la letteratura greca antica? La risposta consolatoria dell’incidenza dei terremoti è, ahimè, falsa, o quantomeno parziale. Chiediamoci, invece: quanti parroci, in tutta buona fede ed ignoranza, hanno distrutto deliberatamente le antiche icone non più di moda, per far posto a quadri manieristi e post-caravaggeschi, di scuola napoletana o siciliana, da loro considerati più “moderni”? Quanti monaci e chierici calabresi hanno fatto il loro soggiorno a Roma, a Venezia o a Firenze “regalandovi” preziosi manoscritti bizantini di Calabria, operando così una diaspora di codici senza precedenti e senza giustificazione? Quanti ecclesiastici hanno preferito “rimuovere” icone per fare posto alle statue dei nuovi santi «di importazione»?
Il frutto di quest’atteggiamento mentale è riconoscibile negli studi archeologici e storici, in cui solo da pochi decenni si registra appena l’inizio di un’inversione di tendenza. Fino ad ora si è studiata solo la fase greca e romana di ogni sito, “saltando” quella bizantina, per poi riprendere dai Normanni in poi. È come se un’intera epoca sia stata cancellata dalla memoria collettiva. Si arriva al punto che di chiese di chiaro impianto bizantino sia certificata l’origine solo in epoca sveva o angioina, con il pretesto che le «fonti d’archivio» non permettono di risalire più indietro nel tempo.
Eppure la matrice bizantina ed orientale, nonostante le tante devastazioni, ha ancora la forza di segnare indelebilmente il volto di questa Regione, disseminata di gioielli. Basti pensare al monastero di S. Giovanni il Mietitore a Bivongi, alla Cattolica di Stilo, alla chiesa di S. Giovanni Crisostomo a Gerace, ai gioielli architettonici di S. Severina e di Rossano. Non tutte le icone sono state distrutte: ancora a S. Lorenzo si venera una antica Madonna con Bambino, mentre altre sono ancora a Diminniti ed in vari luoghi di culto della Calabria. Una, molto importante per la sua antichità, è nella Collezione del Museo S. Paolo di Reggio: si tratta di un S. Gerasimo proveniente da un monastero della Valle del Tuccio.
La ripresa degli studi arricchisce questo patrimonio sempre di più, e sempre nuovi gioielli vengono ad aumentare i segni importanti di un passato luminoso, che può divenire la base per la ripresa culturale, economica e morale della Calabria. Non è un caso che dopo 1000 anni di dominazioni straniere la Calabria meridionale continui a fornire alla Chiesa Universale ancora una messe di sacerdoti ortodossi, caso unico al mondo di attaccamento pervicace alla propria Storia ed alla propria Patria. Non è un caso se, al di fuori di tutti i circuiti ufficiali, una coscienza della propria cultura romeica bizantina si sta facendo largo nella popolazione, una cultura che esige maggiore rispetto verso i propri monumenti, i propri reperti e le proprie tradizioni religiose, anche all’interno dello stesso mondo cattolico.
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Castrizio D., Una identità culturale negata alla Calabria (in Passarelli G., Il ricordo - Le icone del Piccolo Museo San Paolo di Reggio Calabria, Laruffa, Reggio Calabria, 2002).
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